ALIEN: COVENANT di Ridley Scott

Alien-Covenant****
Come già accaduto con Prometheus, anche Alien: Covenant ha scatenato reazioni negative che dovrebbero portarci, ancora una volta, a domandarci cosa sia il cinema. Fondamentalmente le critiche si incentrano su due nodi principali: l’indefinitezza narrativa e la verosimiglianza. In poche parole, il film non “fornisce risposte” e costruisce il proprio microcosmo su una sospensione dell’incredulità troppo audace. Due istanze cui il cinema, a mio parere, non è tenuto a rispondere.
Alien: Covenant, difatti, è la generazione di un’idea purissima di cinema: un film che si estende orizzontalmente, cercando costantemente di spingere i limiti del nostro sguardo. Lo spazio, in Covenant, è infinito a destra e sinistra dell’immagine; mentre la profondità va oltre la nostra capacità di percezione. Ridley Scott è, come l’androide David, innamorato del concetto di creazione, di un’idea di “sovrumanità” che concerne l’artista; il suo progetto è infrangere i limiti tanto del reale quanto del visibile.

Criticare Covenant perchè non fornisce risposte chiare a determinati grumi di trama significa rendere il cinema piccolo, ridurlo a dilemmi di natura televisiva e seriale: Covenant invece va ammirato per la seduzione spaziale, per il piacere che reca nel suo tendere ad un’immagine ultraterrena. La ieraticità dello spazio profondo, il silenzioso movimento dell’astronave tra le stelle hanno una qualità magica; le sue vele dorate, che si accartocciano durante un brillamento e poi tornano integre, splendenti, sono un’immagine tanto irreale quanto sbalorditiva: quell’oro ci rimanda ad odissee leggendarie. Non ammirare la vaghezza di Alien: Covenant vuol dire abdicare al sogno, e dunque, come diceva Flaiano, masturbarsi con la realtà.

Ridley Scott ha creato un’opera rara, gettandosi alle spalle gran parte delle convenzioni del genere: se visivamente il suo universo resta consistente, di nuovo e sfrenato vi è l’afflato letterario e poetico che lo anima. L’androide David, chiaramente il cuore del film (e si deduce anche dal fatto che il resto del cast sia anonimo, quasi ad avvalorare la convinzione di David della mediocrità della razza umana) ha fatto di arte e letteratura la propria spinta ideale; circondato da paradigmi rinascimentali di bellezza, appassionato di poesia romantica, egli considera la capacità creativa come unica, nobile giustificazione dell’esistenza. Un’idea che si fa ossessione, attraverso la quale Scott ripropone la tragedia del Frankenstein di Mary Shelley, la sfida col divino, la tensione creatrice.
David, come Leonardo da Vinci, studia anatomia, disegna corpi: lo sventramento dei personaggi femminili testimonia la sua spasmodica ricerca del segreto della vita. Il confronto di David con l’androide/fratello Walter è la parte più affascinante, shakespeariana del film: il terreno di una ricerca poetica e filosofica che Scott traduce in un immaginario grandioso, sfruttando il potere disorientante del doppio in seno all’inquadratura.

Eppure, nonostante la sua qualità classica, e le sfide a colpi di Byron e Shelley (non saremo mai abbastanza grati al film per questi dialoghi), Scott non dimentica che Alien è un prodotto popolare, e non si fa scrupoli di contaminare la raffinatezza della sua sceneggiatura con un gusto esploitativo del tutto pulsionale: un appetito sensuale per corpi che esplodono, sangue, mutazioni genetiche, decomposizioni. In Alien: Covenant resta intatto il gusto perverso di vedere un organismo marcescente. Del resto, come dichiara l’androide David, la razza umana è morente e non merita di risorgere. Nella caduta luciferina di David c’è una grandezza nietzschiana che Scott sposa ad un universo sempre più ignoto ed indicibile.